Conferenza 28 Novembre: "La violenza verso se stessi. Autolesionismo e intervento terapeutico"

Conferenza 28 Novembre: "La violenza verso se stessi. Autolesionismo e intervento terapeutico"
03 Novembre 2017

Terapia psicologica Firenze

In America li chiamano cutters, i tagliatori.

Tagliarsi, bruciarsi, mordersi, strapparsi i capelli ma anche abbuffarsi, sono tutti sintomi appartenenti ad un’intera generazione di adolescenti e giovani adulti che rientra nel fenomeno dell’autolesionismo; fenomeno del quale forse si parla ancora troppo poco e del quale molti voi avranno sicuramente sentito parlare recentemente a seguito dei noti fenomeni comparsi in rete, più o meno verificati, e per i quali c’è stata una grossa risonanza mediatica.

Il concetto di aggressività è stato da sempre oggetto di studio nei diversi campi di ricerca, con l’obiettivo di distinguere tra forme di aggressività definite in psicologia “a valenza negativa”, da quelle invece secondo una prospettiva etologica, necessarie alla sopravvivenza e alla maturazione psichica dell’individuo.

I comportamenti aggressivi possono essere frequenti in un’età di fragile transizione come l’adolescenza, fase di ricerca di identità e autonomia che passa anche dal rifiuto del mondo degli adulti. Basti pensare allo sviluppo puberale, che porta con sé un fisiologico aumento dell’impulsività.

Quando, invece, l’aggressività supera i normali confini di un sano agire proattivo, perde il suo valore evolutivo e si trasforma in violenza, ovvero l’aggressività fuori controllo.

E’ difficile trovare delle statiche certe, anche a causa del tentativo dei giovani di nascondere il problema per vergogna; gli studi attuali ci dicono comunque che il fenomeno è diffuso nei giovani tra i 12 e i 14 anni con una incidenza di circa il 33%, così suddivisa: 15-20% adolescenti (Ross et al. 2002), circa il 6% giovani adulti (Briere & Cil 1998, Klonsky 2011).

I dati statistici ci indicano, come sottolineato anche da M. Selekman (2009), un aumento crescente nella fascia d’età 10-12 anni; come potete immaginare siamo di fronte ad una vera e propria epidemia probabilmente dovuta anche all’effetto “contagio” che coinvolge internet; sono disponibili in rete molti filmati di ragazzi che si auto-lesionano, ci sono forum e chat dedicati all’argomento e il rischio, in questi casi, è quello di una sorta di condivisione piacevole del dolore che potrebbe rafforzare certi comportamenti.

Per un certo periodo all’interno del DSM IV (manuale statistico e diagnostico dei disturbi mentali), i comportamenti autolesionistici hanno rappresentato uno dei criteri identificativi del Disturbo borderline di Personalità. La letteratura scientifica ha comunque dimostrato che queste modalità comportamentali si riscontrano anche in altre categorie diagnostiche (ansia, depressione, disturbi alimentari) e in ogni caso, molti degli individui che ricorrono ad atti di autolesionismo non soddisfano i criteri per il disturbo borderline di personalità. Così nell’edizione numero V del DSM è stata inserita la categoria diagnostica di autolesionismo non suicidario. In letteratura, soprattutto in passato, è stata frequente l’erronea sovrapposizione tra tentato suicidio e compulsione autolesiva ma dall’osservazione della pratica clinica, come ci suggeriscono anche Favazza (1998) e Selekman (2009), la differenza sostanziale tra “l’aspirante suicida” e l’autolesionista è che il primo vuole morire ponendo fine ad ogni sensazione, mentre il secondo vuole vivere ricercando delle sensazioni.

Quello dell’autolesionismo è sicuramente un fenomeno molto complesso nelle sue forme e nelle sue manifestazioni. In quest’incontro, tenteremo di capire insieme, provando ad assumere un punto di vista alternativo, quanto e perché possa essere utile “questo sintomo” per chi lo mette in atto.

Grazie anche al lavoro di ricerca ultra ventennale di due autori M. Selekman e G. Nardone, si è giunti ad individuare oltre ad una concomitanza tra dinamiche auto lesive e disordini alimentari (in particolare bulimia), due effetti fondamentali di rituali auto-lesivi compulsivi.

Da un lato un effetto che potremmo definire anestetico, come se torturando il proprio corpo si placasse il dolore psicologico attraverso una specie di anestesia emotiva ottenuta proprio attraverso il doloroso fisico.

Questo tentativo di sedazione dal dolore risulta fallimentare perché inefficace nel tempo, cioè la sofferenza scacciata attraverso le ferite riemerge con prepotenza e vigore sempre maggiore.

Il gesto auto-lesivo è solo una fuga temporanea che porta ad altre fughe sempre più ravvicinate nel tempo. Il “farsi male per stare bene” diventa un tentativo di soluzione che si ripete, come un demone dal quale non è più possibile liberarsi.

Il secondo effetto riscontrato è di ricerca del piacere nel dolore, prospettiva supportata anche da una spiegazione fisiologica secondo la quale il nostro sistema nervoso in presenza di ferite rilascia endorfine (oppioidi naturali) che ci impediscono di avvertire dolore, anzi innescano un piacevole senso di benessere ed euforia.

In quest’incontro, dopo una panoramica su alcune delle prospettive possibili sulle cause e le relative modalità di trattamento (terapia familiare, intervento farmacologico, approccio narrativo, dialettico comportamentale ed altri), ci soffermeremo in particolar modo sul trattamento del comportamento auto-lesivo secondo la prospettiva dell’approccio strategico breve evoluto.

Da questa prospettiva, trattare il problema attraverso un’etichetta diagnostica o tentare di spiegarlo attraverso una causa, anziché valutarlo come effetto di un insieme di concause, potrebbe avere nell’adolescente l’effetto di sentirsi identificato con un problema o una malattia e dal punto di vista della ricerca indebolire la spinta ad interrogarsi sul funzionamento del problema e le possibilità per risolverlo.

Obiettivo dell’intervento terapeutico, che riamane se ben costruito un intervento insostituibile, sarà quello di modificare qualitativamente il sentire e quindi l’agire dell’individuo. Partendo da quella che nell’intervento strategico breve evoluto (attraverso i tre livelli: strategia, comunicazione, relazione), è la prima distinzione necessaria tra le torture auto-inflitte con lo scopo di anestetizzare un dolore e quelle che hanno come scopo la ricerca del piacere. La struttura del problema in questi due casi è differente e di conseguenza lo è la struttura dell’intervento che si muove sempre entro tre livelli: strategia, relazione e comunicazione. Con particolare riguardo, per questa tipologia di problema alla relazione, non sempre facile soprattutto con gli adolescenti; lavorare con loro richiede estrema flessibilità. 



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